Di tanto in tanto il rock torna ad abbeverare il suo endemico meticciato alla fonte di una musica popolare diversa, traendo nuova energia da questi innamoramenti periodici. D'altronde anche da noi Tenco aveva auspicato, mentre preparava il disco che poi non fece per ben noti motivi, che anche gli italiani "come gli americani" imparassero a pescare nella loro ricca tradizione popolare. Tra gli '80 e i '90, da una parte era il turno di Mano Negra e Negresses Vertes con cui la Francia guadagnava un posto al sole (mai avuto in ambito rock) riscoprendo le radici musicali dei suoi immigrati; dall'altra era l'Irlanda, miticamente grazie agli U2 e musicalmente ai Pogues, ad essersi ricavata un posto nel cuore del pubblico come folk del momento. Il 1990, poi, aveva scosso col fenomeno delle posse il circuito indipendente nostrano togliendo il monopolio della canzone politica alle raffinatezze tra avanguardia e meta- dei CCCP e portando alla luce gruppi che con l'hip hop in senso stretto c'entravano poco (Statuto, Banda Bassotti, Mau Mau). Questi ultimi erano in linea con la contemporanea direzione di certi Gang che, oltre ad aver riabituato il pubblico alla fisarmonica (seguiti poi dagli Yo-Yo Mundi), avevano riportato la canzone di protesta dal punk alla musica popolare (un po' come il Joe Strummer che andava in tournée appunto con i Pogues) con una virata dallo stile London Calling alla nostra tradizione cantautorale. Così, quando una banda di delinqueint e M'dna innamorata dei Chieftains arriva al disco, lo fa andando ad occupare una casella vuota ma abbondantemente preparata, con una precisione che se non fosse per l'ideologia più che manifesta farebbe pensare a una magistrale operazione di marketing (ossia di prodotto costruito seguendo le indagini di mercato). Il mix di elementi che il gruppo riporta a casa (il titolo Dylaniano non è davvero un vezzo), svecchiando la canzone politica della sua aura epico-rurale, sembra infatti mirato apposta per piacere a un pubblico giovane orientato a sinistra: l'elemento dialettale (rivalutato da alcune posse), l'Irlanda di cui s'è detto omaggiata in apertura con la dichiarazione d'amore di In un giorno di pioggia, Stefano Benni (il testo della bellissima Ahmed l'ambulante, ritmi Negresses e sound celtico), la tradizione comunista delle loro terre (il vivace quadro di grande storia vista dal basso de I funerali di Berlinguer) e una serie di personaggi che si aggiungeranno nei dischi successivi (Paolo Rossi, Guccini, Marquez…). A far funzionare tutta l'operazione ci sono un bel talento melodico italiano accompagnato da una mano felice nel fonderlo con quello irish, oltre a una coesione esplosiva non solo live: per trasformare infatti Bella ciao in un letale riempipista alt ce ne vuole, soprattutto se in organico non hai una batteria (arriverà ad album praticamente finito) ma solo il bodhran e gli spoon. Il monolite ideologico è interrotto da quadri più intimisti (Morte di un poeta, Ninnananna) e stemperato nell'ironia della traduzione in dialetto della geldofiana The Great Song Of Indifference, che chiude il trittico di cover aperto da Contessa. Quest'ultima però creerà qualche problema: il disco esce nella data simbolica di marzo del '94, inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, ed evidentemente gli anni '80 non sono passati invano se il testo di Pietrangeli, reo di aver turbato la sensibilità di una parte del pubblico, verrà leggermente modificato con conseguente dissenso dell'autore dell'originale e depennamento finale dalle scalette dei concerti. Un problema inatteso per un gruppo che da qui in avanti assumerà il ruolo, attribuito fino a quel punto a Guccini, di idolo polemico prediletto di chi per gusto (o differente fronte di impegno) aborrisce il cosiddetto cantare "impegnato". Recensioni di "Giulio Pasquali" (www.sentireascoltare.com).
RATING: 7.75 / 10
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